
In questi giorni mi sono fatta prendere dalla curiosità di come viene rappresentato il cancro sulla nostra tv nazionale attraverso una fiction che sta riscuotendo piuttosto successo e così me la sono guardata tutta e ho iniziato a farmi diverse domande su come possa influenzare l’idea che ci si può fare di questa malattia.
Premesso che la filmografia è piena di storie basate su vicende di salute e nella fattispecie legate al cancro declinato in tutte le sue versioni, il fatto che un tumore sia il filo conduttore di una intera stagione di uno sceneggiato nazional popolare come “È arrivata la felicità 2” può dare davvero spunto ad alcune riflessioni interessanti.
Nei video-trailer della serie che ho trovato online e che tu puoi vedere qui, in caso non ricordi o non conosca questa fiction, il cancro non viene mai nominato, si allude a imprevisti, difficoltà, colpi di scena e la malattia-mai-nominata è proprio il pezzo forte che crea la suspense necessaria a incuriosire lo spettatore e fin qui niente di strano, la malattia emoziona, si sa.
Il mio intento è volgere uno sguardo sulla piega che prende la nostra società con il solo scopo di coglierne tutti gli aspetti, in fin dei conti anche io sono qui a raccontare e a esprimere la mia opinione attraverso i mezzi che la nostra società ci mette a disposizione, quindi lungi da me l’idea di polemizzare, mi interessa piuttosto osservare criticamente un fenomeno di costume e capire cosa apporta di nuovo.
La prima idea che mi viene in mente è che vedere il cancro inserito in uno sceneggiato di genere commedia-sentimentale di questo tipo “normalizza il cancro”.
Cosa significa “normalizzare il cancro”?
- Togliere l’aura di “paura a prescindere” che circonda questa patologia con la conseguenza di aiutare chi non ha già avuto un contatto più o meno diretto con questa realtà a non considerarlo più un tabù.
- Favorire una anestetizzazione superficiale del pubblico dalla durezza della realtà che talvolta lo caratterizza, con svariate ricadute, da un lato lo propone come un evento “accettabile” all’interno della vita quotidiana, mentre dall’altro desensibilizza la popolazione rispetto alla complessa, delicata e molte volte drammatica situazione in cui si vengono a trovare le persone colpite e le loro famiglie.
Quindi se il cancro è “normale” …
Se il cancro è “normale” si è portati a porsi meno domande quando capita di averci a che fare e si entra in modo ancora più “automatico” in un flusso pre determinato in cui lo “spazio” critico si restringe sempre di più.
Lo “spazio” critico però è fondamentale per:
- assumersi la responsabilità della propria condizione,
- aprire la porta alla possibilità di capire realmente il messaggio della malattia,
- esercitare il sacrosanto diritto alla libertà di cura.
Se diventa “normale” passare da un reparto di oncologia almeno una volta nella vita, è più facile smettere di interrogarsi rischiando però di perdere una grande opportunità, quella di avere la presa di coscienza che tanto influisce sul successo del percorso di guarigione profonda e non solo di guarigione dal sintomo.
Io per prima ho sperimentato come sia difficile mettersi in discussione quando non si è davvero obbligati e nel mio caso non è stato nemmeno necessario venire esposta a una serie televisiva, ma solo alle mie paure del cambiamento per cercare accuratamente di evitarlo, infatti durante il mio percorso attraverso il cancro al seno la mia consapevolezza non si è particolarmente evoluta, ho solo tenuto sotto controllo la situazione rimanendo caparbiamente immersa nella mia vita di sempre.
Solo il reale timore di non trovare una soluzione al secondo tumore è riuscito ad attirare la mia attenzione al punto da farmi prendere coscienza non solo della malattia, ma di me dentro di essa dandomi la spinta per intraprendere il processo evolutivo che la malattia in realtà sempre richiede.
Questo per dire che più “alibi” largamente condivisi ci sono, più è facile dire e dirsi:
- che non c’è motivo di cambiare nulla,
- che basta azzeccare la cura per ritornare in pista, nel punto esatto in cui ci si era fermati,
altroché mettersi in discussione, imparare ad amarsi, lasciar andare, scoprire la propria missione, scoprire il senso della malattia eccetera!
Ma allora, detta così, potrebbe sembrare che tentare di eliminare la paura e alleggerire il senso di cupa oppressione che c’è intorno a questa malattia possa addirittura essere una cosa negativa.
Sì e no. Dipende da come ci si approccia alla paura di questa malattia.
- Se la paura viene guardata solo come il presagio della fine e ci si pone di fronte ad essa con l’intenzione di eliminarla senza affrontarla, magari ridendoci pure sopra, tenendo la testa ben ficcata sotto la sabbia, allora penso che sia una svolta negativa.
- Se invece si accetta di guardare la paura e di arrivare alla sua eliminazione attraverso un passaggio profondo attraverso di essa per comprenderne il suo significato nella nostra vita, allora è una eliminazione positiva perché la si sfrutta come leva per l’assunzione di consapevolezza e il cambiamento e in quel caso un po’ di senso dell’umorismo può essere davvero terapeutico e offrirci un punto di vista più ampio sulla nostra esistenza e su quella esperienza in particolare.
E se lo chiediamo a quelli che vivono il cancro sulla loro pelle proprio ora che effetto fa vederlo così in tv?
Il cancro coinvolge ormai una buona fetta della popolazione e una parte di essa purtroppo in modo drammatico, questa è una realtà innegabile. Dal punto di vista di alcuni di loro con cui ho avuto modo di parlare dell’argomento, una rappresentazione così edulcorata della realtà tutt’altro che dolce, con cui si confrontano ogni giorno, è considerato un approccio irrealistico e perfino troppo irriverente.
Tra i punti più ricorrenti emersi nella discussione con chi è ammalato c’è che in questa normalizzazione del cancro, viene ignorata una grossa fetta degli aspetti ad esso correlati nella cruda realtà, come tutta la immane casistica:
- di rapporti non sempre idilliaci tra medico e paziente,
- di dubbi nella scelta della cura,
- di ricerca e spostamenti onerosi per ottenere la cura,
- di confronto continuo con la paura di morire,
tutto rimane nascosto dietro l’omologazione della storia perché si presti allo “sdoganamento”.
Inoltre come accade di solito nell’immaginario collettivo, l’attenzione si fa ricadere prevalentemente sulla terapia (chemioterapia) che diventa la protagonista indiscussa più della malattia stessa.
Il punto a favore invece è quello segnato dall’ escamotage molto carino presente nel racconto, le incursioni negli “ingranaggi dei cervelli” dei 2 protagonisti, dove viene rappresentato il loro dialogo interiore. In quei momenti ogni tanto si trovano accenni ai pensieri più realistici che attraversano la mente di chi si confronta davvero con la malattia (oltre che con gli altri innumerevoli problemi della vita reale) e per un attimo ci si può pure rispecchiare, ma giusto un attimo …
Assoluzione o condanna?
Niente di tutto ciò!
Come ho detto all’inizio tutte queste riflessioni non vogliono essere un “processo” quanto piuttosto una osservazione a 360 gradi di un prodotto di intrattenimento che cerca di rimanere in equilibrio tra le molte istanze di un argomento complesso come “il cancro che ti piomba in casa” e le necessità della fiction “per famiglie” che per le sue caratteristiche e la sua diffusione (in prima serata su Rai1) può davvero contribuire a fare opinione.
In questo tipo di format credo comunque che difficilmente si potrebbe affrontare la questione in modo più completo e alla fine non penso nemmeno che questa sia la cosa più importante.
Penso invece che sia molto importante non “bere” l’intrattenimento del dopo cena in modo inconsapevole e acritico. Una volta che ci si è resi conto del contenuto e delle sue implicazioni allora ci si può rilassare in poltrona e decidere liberamente come spendere la serata, anche guardando una storia “light” su un tema tutt’altro che “light”.
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Queste sono le parole di chi ha già scelto di andare con me oltre la paura.